Street art: tra vandalismo e rivisitazione
Uscire di casa. Perdersi tra le strade sinuose della città. Poi, d’un tratto, ritrovarsi di fronte un enorme e coloratissimo murales. Probabilmente ognuno di noi è stato protagonista di questa storia. In effetti graffi ti & co, a partire dalla fi ne degli anni Sessanta, hanno invaso l’intero pianeta, diventando la forma d’arte più diffusa al mondo.
Ma si può parlare di arte? O si tratta di vandalismo? Graffiti, murales o la tanto chiacchierata Street Art sono sinonimi oppure indicano fenomeni diversi? La storia di questo tipo di arte (noi la definiamo tale) è affascinante ed estremamente legata a fattori politici e sociali. Inevitabilmente, cambiando la società, anch’essa ha subito profonde variazioni. E noi proveremo a raccontarvele. Innanzitutto, gli uomini hanno da sempre avuto il bisogno di lasciare il proprio segno sui muri. Pensiamo alle pareti delle caverne, o ai geroglifici egizi o le scritte accumulatesi nel tempo sulle pareti del Colosseo o altri siti di rilievo. L’arte, in fondo, è un grande e sublime mezzo di comunicazione: se fatta in luoghi pubblici, il suo potere comunicativo si espande.
I graffiti, come li intendiamo oggi, hanno tuttavia un’origine più recente. Sono infatti legati all’apparizione della bomboletta aerosol negli anni ’60. Essa ha offerto la possibilità a quella generazione di giovani romantici degli anni ’70 e ’80 di lasciare iscrizioni contro la società e i suoi stereotipi borghesi proprio nello spazio pubblico in cui essa viveva: la città. Oggi il fenomeno è molto diverso e si tende a parlare di Street Art.
Ma la Street Art, quella che persino gli enti pubblici e culturali sovvenzionano, si basa su principi completamente opposti rispetto al graffitismo degli anni ’70, ’80, ’90. Spartiacque, in questo come in tanti altri casi, è stato l’avvento di internet e la rivoluzione delle comunicazioni nel XXI secolo. Pensate che prima del 2000 i “writers”, gli artefici dei graffiti, misuravano la grandezza della loro arte sulla base del coraggio e della polemica sociale. Le loro firme erano criptate. I loro giudici? La crew di cui erano parte. Il loro era un microcosmo che si opponeva al resto. A nessun writer interessava piacere agli altri. Tutt’altro. Il loro obiettivo era soltanto deridere e denunciare i paradossi socio-politici. Per questo, per trent’anni, il graffitismo è stato considerato un atto di vandalismo e fortemente ostacolato da forze dell’ordine e autorità pubbliche. Attualmente, però, non si può dire lo stesso. Con l’avvento di internet prima, dei social network poi, la voglia di apparire e di essere qualcuno è diventata sempre più diffusa. Il grande pubblico del web si è trasformato in un giudice da conquistare. A differenza dei writers, gli street artist hanno cominciato a firmarsi, a palesarsi di fronte alle loro opere. Ma soprattutto sono scesi a compromesso con la precedentemente odiata società.